Calvino è portatore di un punto di vista «geometrico» sulla realtà e la conoscenza del reale è il problema da cui scaturiscono la sua riflessione e la sua scrittura, in una prospettiva in cui l’immagine e la parola si generano a vicenda: il mito produce conoscenza e la scienza produce miti.
Il Calvino della seconda fase è alla ricerca di una nuova modalità di osservazione del reale, che gli consenta di superare il filtro del sé, dell’osservatore-uomo che continua a pensarsi come centro e misura dell’esistenza, mentre non è che l’accidente attraverso cui la materia può dare voce a se stessa.
In Palomar, ultimo romanzo di Calvino, la tensione alla conoscenza, depurata dal filtro deformante dell’osservatore, si risolve in un estremo tentativo di «guardare le cose dal di fuori […] lasciando da parte l’io». Il tema del filtro dello sguardo e quindi del sé, resta così centrale.
L’esercizio minuzioso dell’osservazione, l’esattezza dello sguardo come condizione della conoscenza, l’allontanamento dall’insieme per scoprire il dettaglio: sono questi i processi mentali attraverso cui Palomar osserva e descrive il reale, per tentare di conferirgli una forma e un ordine.
Con Palomar esplode la contraddizione inconciliabile tra il labirinto e la mappa, tra la tensione all’esattezza del dettaglio e la necessità di ordinare il caos del mondo, escludendone però parti significative. Palomar è destinato al fallimento, ma questo non diminuisce il valore etico dell’operazione che egli compie.